Le memorie della Casa di via Miciano di Antonio Davide


Si riportano qui le considerazioni battute a macchina per scrivere da mio padre Antonio Davide (1922-1993) sulla Casa avita in Giugliano, situata in via Miciano, poi via Mattia Coppola. Trascrizione di Bruno Davide, 26/03/2007.

Nel seguito, in verdastro, la trascrizione a macchina per scrivere di Antonio Davide; in blu, note sparse di Bruno Davide.


(Inizia qui la Pagina 1 della trascrizione a macchina per scrivere)

NOTA REDATTA DA ANTONIO DAVIDE DI FRANCESCOPAOLO ATTILIO

(Allegata alla planimetria della casa in Giugliano)

Poiché né mio padre, né suo zio Sacerdote Domenico Davide nelle loro memorie vi si dilungano molto, ritengo utile scrivere qualcosa su quella che è stata la nostra casa in Giugliano alla via Miciano n.5 (ora via Mattia Coppola n.15) per oltre cento anni fino al 1970; anno in cui, per le condizioni in cui era ridotta la porzione ancora di proprietà degli eredi di mio fratello Domenico, la sua vedova Teresa Guarino ritenne opportuno venderla per comprarne una più piccola in condominio, in un fabbricato di P.zza Annunziata.

In quella casa sono nato il 22 maggio 1922 ed ho vissuto fino al giorno del mio matrimonio avvenuto il 30 giugno 1954.

Ho disegnato perciò, nel novembre 1976, le due planimetrie (pianterreno e primo piano) allegate a questa nota affidandomi quasi esclusivamente alla memoria e, ovviamente, alla mia esperienza professionale. (Seguirà, appena possibile, la riproduzione delle planimetrie qui citate)

Posso assicurare comunque che le dimensioni delle camere sono esatte quasi al centimetro (ricordo perfettamente la disposizione dei mobili e le loro dimensioni; la posizione e la larghezza delle porte, balconi e finestre, il numero dei gradini delle scale che, mio fratello Gerardo ed io, scendevamo a salti di corsa), come esatti sono l'orientamento e la successione di esse. Per questa ragione, senza esitazione, ho precisato anche il rapporto 1/100. Per ovvie ragioni è invece approssimata la perfetta ortogonalità dei muri così come da me resi nelle planimetrie: ma questo non cambia l'insieme della casa che era enorme e, per quell'epoca, molto bella e confortevole.

Molto mi hanno aiutato, nella descrizione dei particolari, fotografie varie scattate in casa e, tra esse, alcune conservate tra queste memorie, fatte dopo il cannoneggiamento subìto il 3 ottobre 1943 ad opera delle truppe alleate che avanzavano da Napoli verso Cassino e Roma e si batterono contro un piccolo gruppo di tedeschi annidati all'interno dell'abitato di Giugliano. Oltre i quattro proiettili documentati dalle foto (da pubblicare appena possibile), un quinto colpì l'ultima camera delle


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cameriere (primo piano n.1) (NB: tutti i riferimenti numerici ed alfabetici sono relativi alle planimetrie, ancora da pubblicare) ed altri ancora caddero in giardino dove tutta la famiglia era rifugiata in un ricovero fatto scavare con molta previdenza da mio padre.

Per fortuna nessuno di noi rimase ferito o colpito, ma i danni alla casa furono notevolmente gravi.

E veniamo alla descrizione.

PIANTERRENO

Da via Miciano si entrava in un cortile di medie dimensioni attraverso un androne, a sinistra del quale c'era un terreno adibito a garage per l'automobile (che abbiamo avuto fin dal 1928: la prima, una Fiat 509 targata NA 8241). A destra del cortile, ma con accesso alla strada, era ubicato un appartamentino (A, B, C, D) fittato alla ostetrica di famiglia, una certa Raffaela Pragliola.

Dal cortile si accedeva alla scala principale, alla sala di attesa dei clienti di mio padre (4), ad un'enorme camera da pranzo (7) ed alla cucina che rappresentava il nostro abituale ingresso.

La camera da pranzo "buona" era tutta rivestita fino ad una certa altezza da pannelli in noce; i mobili erano tutti in noce intarsiato: al centro un (!) grossa tavola quadrata che, con l'aggiunta di assi centrali poteva contenere fino a quattordici-sedici persone; lungo le pareti est ed ovest una cristalliera, un "buffet" ed un "controbuffet", a nord e sud due divani di cui uno in pelle, sormontati da enormi specchi (tutto questo mobilio esiste ancora in casa degli eredi di Domenico). In un angolo un delizioso camino in marmo bianco mitigava il gelo invernale.

Usavamo la camera per i pranzi degli ospiti di un certo tono, per le feste natalizie durante le quali amici e parenti si riunivano a casa nostra, ma soprattutto per i balletti tra amici che, per anni, si sono susseguiti dalla giovinezza dei miei fratelli maggiori a me, che ero l'ultimo.

Devo ora descrivere la cucina perché con le camere adiacenti (10, 11, 12, 13 14, 15) costituiva il vero fulcro della casa ed il regno della mia carissima madre.

Aveva pavimento maiolicato ad ornati e tutta la parete nord occupata da un bellissimo banco in muratura, completamente rivestito sul fronte, sui ripiani e sui fianchi di maiolica napoletana a disegni.


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Il banco, da ovest verso est, era costituito da una vasca (nella quale nuotavano spesso pesci comprati o ricevuti in regalo e, a Natale, i tradizionali capitoni), da un efficientissimo forno a legna rivestito in ferro con maniglie in ottone completo nella parte superiore di rosticceria e scaldavivande; da due grandi caldaie in rame alimentate a legna, da una serie di fornelli a carbone di vario diametro, da una vaschetta per acqua calda che si alimentava con il calore degli altri fornelli ed infine da una seconda vasca di lavaggio. Al disotto dei fornelli v'erano due grosse casse per il carbone e, al disopra del banco di cucina era attaccata al muro tutta una serie di pentole, tegami, tegamini, teglie in rame.

(Non posso fare a meno di notare quanta importanza sia data nella descrizione di mio padre Antonio alla pretesa opulenza derivante dall'abbondanza di attrezzi, pentolame, accessori, suppellettili sparse; ne parla, probabilmente a ragion veduta, con orgoglio e meraviglia. All'epoca, è bene ricordare, i bisogni primari come principalmente il soddisfare l'appetito erano vivi e presenti. E allora principalmente si sofferma su quello... Fornelli, tegami e tegamini... E, più sotto, sul calore delle stanze maggiormente abitabili...)

Se si pensa che nella casa vivevano mio nonno Pasquale, i miei genitori, sei figli, da due a tre cameriere e che normalmente rimanevano a pranzo amici di mio padre o di noi figli, si capirà quale movimento ospitasse quotidianamente questa importantissima camera.

A servizio di essa v'era l'anticucina (10) con un lungo marmo di preparazione che occupava tutto l'angolo sud-est, vasche di lavaggio, tavoli di legno con bilancia, attrezzi vari.

Nel soggiorno giornaliero (11) ci trattenevamo e consumavamo abitualmente i nostri pasti; era infatti la stanza più calda d'inverno avendo pavimento in legno, esposizione a sud ed era protetta a nord da un'altra camera (14) che chiamavamo "la stanza delle scarpe" per la presenza in essa di un comò colmo di scarpe, lucidi e pezzuole per la loro pulizia. Nello stesso tempo il soggiorno era fresco d'estate; bastando a tale scopo aprire le porte a nord.

Le serate invernali si trascorrevano invece nella "stanza del camino" (13): mio nonno seduto in una vecchia poltrona rossa nell'angolo, con sul naso gli occhiali montati d'acciaio e l'eterna pipa di terracotta in bocca, rappresentano per me un ricordo incancellabile. Ed anche incancellabili sono il ricordo del bellissimo scaldacqua cilindrico in rame, alto oltre due metri, troneggiante nell'angolo sud-est della stanza, che serviva ad alimentare la vasca da bagno in verticale al primo piano; il brontolio dei fagioli che bollivano nelle pentole di creta accanto al fuoco o le patate croccanti cotte sotto la brace, aperte in due, condite con sale e pepe e mangiate bollenti; oppure infine la scaletta interna che, di sera, si saliva di corsa


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per raggiungere le gelide, enormi camere da letto al primo piano, già mezzo svestiti, con la riserva di calduccio accumulata accanto al caminetto.

La legna, proveniente dalla campagna, ci veniva fornita dai nostri coloni che entravano con i carretti a cavalli dal cortile di vico Orologio, bussavano la campanella di un portoncino (che noi chiamavamo "la portella"), portavano a spalla la legna grossa e le fascine passando attraverso un corridoio coperto e la dispensa grande (12) e la depositavano nelle legnaie (15 e 16).

Questa legna occorreva anche per il grosso forno (6), le caldaie della lavanderia (17), il piccolo caminetto in marmo della camera da pranzo grande e per il caminetto in terracotta posto nell'angolo sud-ovest dello studio di mio padre.

Il forno grande serviva per il pane che veniva cotto una volta la settimana circa nonché per pizze, freselle, casatielli, ruoti (teglie) di patate, agnelli, capretti e mille leccornie che, come tutto colpisce la mente di un bambino, si ripresentano nei miei ricordi, attuali e con il loro straordinario profumo.

(Quanto tempo è trascorso da queste sensazioni... Le condivido in massima parte tornando verso il passato remoto della mia infanzia, che ebbe stimoli similari, con gli odori i sapori le gioie ed il freddo e la fame e i desideri che portavano con sé. E le vedo ormai anacronistiche e remotissime oggi nel presente; le mie figlie invece, come tutti i loro coetanei, non hanno desideri, passioni o voglie assimilabili. Rifiutano stupite dolcetti e gelati, biscotti e leccornie, piuttosto sono attratte da chats e videoclips... La distanza che divide oggi noi dai nostri figli è mille volte maggiore di quella che passa fra noi stessi ed i nostri padri e nonni...)

La lavanderia aveva tre vasche rettangolari per il bucato (saponatura e risciacqui), una grossa vasca in muratura circolare con fornello a legna per sbiancare lenzuola con la cenere ed una grandissima caldaia, anch'essa a legna, dove in agosto venivano bollite le diverse centinaia di bottiglie di pomodoro che, preparate in cortile con il concorso di tutta la famiglia e del vicinato, venivano infine allineate su scaffali lungo le pareti della dispensa (12)

In quest'ultima erano depositati inoltre mucchi di patate, madie colme di farina, damigiane di vino, bariletti di aceto, anfore colme di olio o di olive e tante altre provviste che duravano un anno intero.

Dal cortiletto interno si accedeva al giardino, esteso circa mq.600 che non era di nostra proprietà ma fu tenuto in fitto fin da quando Domenico cominciò a cedere parte della casa.


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Esso era in parte adibito a pollaio (i polli vi arrivavano dal localino n.3 di nostra proprietà), in parte piantato a frutta e ortaggi per le necessità di famiglia e in parte a fiori.

Quest'ultima parte, la più grande, rappresentava il regno di mio padre nelle ore di riposo: egli era un grande esperto, oltre che un vero amatore in tale campo. In un angolo, vi aveva costruito, quasi da solo, un "grillage" dove d'estate passavamo le serate a prendere fresco.

Allo studio di mio padre (5) con soffitto a volte e molto ben arredato, si accedeva sia dal pranzo grande che dal cortiletto. Finito il lavoro, mio padre riversava le sue cure sul giardino, spesso attorniato da noi figli e, più tardi, dai nipoti, figli di Domenico.

Attraverso la "portella", che usavamo spesso d'inverno per un motivo che spiegherò tra poco, si passava in un cortile di servizio con tre terranei (E, F, G) fittati ad una certa Mariuccia Migliaccio, ed una camera con cucina (H, I) fittata ad altra famiglia di cui non ricordo il cognome.

Un grosso portone portava su vico Orologio e di qui alla Piazza dell'Annunziata.

Da ragazzi usavamo spesso entrare da questa parte per un motivo molto semplice. Non avevamo il "chiavino" del portone principale (che, contrariamente a quanto farebbe credere il nome, era una chiave lunga oltre dieci centimetri, grossa e ingombrante), la famiglia d'inverno si riuniva nel soggiorno o davanti al caminetto: col freddo di sera si rischiava di rimanere anche mezz'ora a bussare furiosamente il batacchio di ottone senza che qualcuno sentisse.

I vari tentativi di far funzionare un campanello elettrico applicato al portone erano tutti miseramente falliti, perché i ragazzacci di via Miciano s'incaricavano sistematicamente di distruggerlo oppure bussavano in continuazione e scappavano provocando le ire della servitù; perché è vero che per aprire ci si poteva servire dell'apriportone elettrico della cucina ma, per richiudere, occorreva attraversare il cortile con pioggia e vento.

Invece il portone di servizio era sempre aperto e quindi ci bastava arrivare alla "portella" e scampanellare; dal soggiorno ci sentivano subito e il disturbo era minimo.


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PRIMO PIANO

Era tutto ricoperto da un tetto praticabile, salvo la veranda, i pensili davanti alle camere e la cassa scala che era a solaio piano. Nel sottotetto oltre che mobili e carte vecchie, erano sistemati i serbatoi per l'acqua potabile occorrente per l'impianto idrico della casa. L'acqua vi arrivava di notte (raramente) direttamente dalla rete cittadina oppure a mezzo del motorino elettrico impiantato sulla botola della cisterna; quest'ultima era sotto cortile, davanti all'ingresso della cucina. Il sottotetto comunque serviva anche da stenditoio invernale, mentre d'estate era il cortiletto interno a svolgere tale mansione.

La copertura a terrazza della cassa di scala serviva invece a noi ragazzi per far "volare" gli aquiloni, nei mesi delle brezze primaverili.

L'esistenza del tetto e la buona esposizione delle camere da letto (quasi tutte esposte a sud, protette a nord, controsoffittate ma alte oltre m.4,50) compensavano solo in parte la mancanza di riscaldamento; per cui, come ho già accennato, nelle fredde serate invernali, prima di raggiungere le nostre camere ci riscaldavamo per benino accanto al caminetto e quindi salivamo di corsa la scaletta interna; che poi era quella che normalmente usavamo, perché la principale serviva quasi esclusivamente durante i ricevimenti, per la verità piuttosto frequenti.

La distribuzione dei nomi nelle camere da letto che ho indicato in planimetria, si riferisce all'epoca in cui nessuno di noi figli era sposato. Dopo i primi matrimoni avvennero spostamenti che ritengo superfluo menzionare. Preciso solo che mio nonno negli ultimi anni della sua vita fu sistemato nella mia camera (9) che era molto più calda e comoda; essa fu rioccupata da Gerardo e da me dopo la sua morte avvenuta il 19 agosto 1938.

Domenico e Pasquale dormivano nella camera n.1 e si servivano del bagno principale (8), facendo un vero e proprio viaggio; il nonno occupava la n.2 che aveva un suo bagnetto (3).

Salotto, salotto rosso, salottino e veranda (4, 5, 6 e 7) erano le stanze di rappresentanza ma, mentre le ultime due erano anche e necessariamente di passaggio, le prime rimanevano quasi sempre chiuse per aprirsi solo durante i ricevimenti.


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Qui devo soffermarmi un poco; originariamente, a quanto ne so e per quello che ricordo, la casa era molto più piccola e modesta; probabilmente essa comprendeva solo l'ala est e si fermava lungo la linea delle camere 3, 2, 5, 7= Mio padre vi aggiunse tutta l'ala ovest e le camerette a nord (8, 10, 12, 13) migliorandone l'aspetto generale, le strutture e l'estetica anche se non badò molto ai disimpegni.

Ma per la verità allora questa era una caratteristica comune a tutte le case.

Pavimenti, infissi, parati e mobili potevano dirsi, per l'epoca, abbastanza belli. Il pavimento del salotto grande, in particolare, a piastrelle di graniglia e cemento con disegno a tappeto, costituiva un pezzo unico, difficilmente ripetibile. Anche gli altri pavimenti erano abbastanza belli e tenuti con scrupolosa cura dalla servitù. Il soffitto del salotto, secondo il gusto di allora, era in tela decorata con scene di figure mitologiche e tralci di fiori, dovuta alla mano di un maestro di Giugliano (che allora vantava una fiorente scuola di decoratori, ancora rinomata).

Mio padre aveva lui stesso diretto i lavori ed aveva voluto dare all'insieme un elemento scenografico: provvide a far sistemare tutte le porte dell'ala nuova (4, 7, 9, 11, 14, 15) nella stessa posizione; di fronte alla porta dell'ultima camera (15) aveva poi sistemato un grande specchio alto circa m.2,50. Durante i ricevimenti, quando tutte le porte erano aperte, guardando dal salotto verso ovest, si aveva l'impressione di una casa molto più grande di quanto non fosse in realtà.

Nel salotto grande vi erano sistemate due belle consolles con grosse specchiere, un divano intarsiato (scomodo) con poltrone e poltroncine in velluto rosso, il pianoforte e colonnine in legno con statuette e vasi in porcellana o cristallo. Dal centro del soffitto pendeva un bellissimo lampadario in ottone dorato e coppe in cristallo e, nei quattro angoli altrettanti appliques (sono oggi in casa degli eredi di Domenico).

Il salotto rosso (6) era invece arredato con divani e poltrone di velluto rosso e con altro divanetto di vimini; forse perché lo frequentavamo meno, ma aveva un aspetto alquanto anonimo.

La veranda (5) era in realtà una stanza di passaggio:


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quello che più ricordo di essa è il grosso finestrone in legno e vetri che occupava tutta la parete ovest, sempre preso in pieno dalla pioggia; tanto vero che, a pavimento, era situato un tubicino di scarico per l'acqua che riusciva a penetrare con abbondanza nonostante l'esistenza di canaletti sulle soglie di marmo e le continue riparazioni che l'infisso richiedeva.

Il salottino (7) che prendeva luce solo dalla veranda era molto più accogliente e grazioso con divano e poltroncine in legno e, negli ultimi tempi, col pianoforte, strimpellato un pò (così nel testo) da tutti in famiglia, da mia madre in gioventù (che aveva un pò (ancora...) studiato) agli altri, me compreso, che suonavamo ad orecchio. Non ricordo però di aver mai sentito mio padre suonarlo, per cui ora non saprei dire se lo sapesse fare.

La camera da bagno (8), anzi dovrei dire l'unica camera da bagno perché era la sola ad avere la vasca, era abbastanza grande ed aveva due porte di accesso, una delle quali comunicava con la scaletta interna. Bisognava quindi ricordarsi, quando ci si arrivava di corsa per..... affari urgenti, di chiuderle tutte e due.

Solo in questa c'era l'acqua calda che si otteneva a mezzo dello scaldacqua di cui ho già parlato, sistemato a pianterreno nella "stanza del caminetto", che veniva avviato dalle cameriere di mattina presto, dopo laboriosi maneggi, infilando legna a più non posso nel focolare alla base della lunga serpentina che si svolgeva all'interno di un cilindro di rame alto più di due metri.

Nella mia camera da letto (9) sono rimasto fino al giorno del mio matrimonio, con l'interruzione dei pochi anni in cui ci visse mio nonno.

Era molto bella, spaziosa, luminosissima e caldissima durante le giornate invernali di sole. Oltre che i letti per Gerardo e per me, trincee di accese battaglie a colpi di cuscini... e calzini che fungevano da gas asfissianti, v'era la scrivania di Gerardo (che per la verità l'usava molto poco), una cassettiera, un comò (poi sostituito da un armadio) sul quale mio padre, a notte inoltrata, depositava i regali la sera precedente l'Epifania, mentre fingevamo di dormire.


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Quando uno di noi due era ammalato ed aveva bisogno di qualcosa, per sopperire alla mancanza di un impianto interno di campanelli, usavamo battere furiosamente sul pavimento una sedia fin quando qualcuno della famiglia, radunata nel sottostante soggiorno, ci udiva. E' quasi superfluo aggiungere che molto spesso bussavamo anche per sciocchezze, con grande ira di chi aveva fatto inutilmente le scale.

Alle spalle della camera da letto v'era il mio studietto (10) con una grande scrivania, la libreria, la lavagna, alcune sedie, un etager. Esposto a nord era freddissimo, per cui di solito studiavo con un braciere acceso sotto il tavolo, che solo in piccola parte riusciva nello scopo. Eppure, specie negli anni dell'Università, vi ho passato interminabili giornate.

La camera da letto dei miei genitori (11), molto grande, era arredata con un comò (sul quale mio padre, piuttosto mattiniero, preparava al risveglio il caffè che poi serviva a mia madre ed anche a noi figli quando si andava a scuola), un grosso armadio, una cassettiera, una bellissima cassaforte e un tavolo ovale. A sud della camera da letto si usciva attraverso il pensile su una terrazza che rappresentava la copertura dei terranei (E, F, G) fittati. La terrazza affacciava oltre che sul giardino, sul cortiletto interno e su quello di via Orologio.

Quando mio nonno occupava la mia camera da letto, soleva di buon mattino raggiungere la terrazza e, con un fischietto, richiamare un gran numero di uccellini (che solitamente stazionavano su un gruppo di bambù nel giardino) ai quali distribuiva briciole di pane o semi che comprava apposta per loro. Se ci azzardavamo ad uscire anche noi ragazzi i passerotti volavano via immediatamente.

A nord della camera da letto dei miei genitori, oltre al bagnetto (13) v'era una cameretta (12) che chiamavamo "la stanza delle scarpe" perché vi dominava un armadio pieno delle scarpe di mio padre: egli era afflitto da calli, per cui si faceva confezionare su misura le scarpe che sistematicamente smetteva dopo poche volte che le aveva calzate e che... pretendeva di passare a noi ragazzi, ottenendone energici e sdegnosi rifiuti. L'armadio perciò ne conteneva a diecine; tutte nuove o quasi: le numerose distribuzioni che mia madre faceva alle famiglie povere non riuscivano a vuotare i ripiani, sempre affollati da nuovi arrivi.


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Sul bagnetto dei genitori era stato ricavto (oops...) un ammezzato nel quale erano sistemati, oltre a cose inutili, oggetti passati di moda come la "tuba" e la "bombetta" di mio padre, la sua divisa e la sciabola da ufficiale dell'esercito: tutte cose cioè che usavamo Gerardo ed io per i nostri giochi.

Dalla stanza delle scarpe si usciva anche sulla terza terrazza, molto poco frequentata perché protetta con ringhiera solo verso est. Su di essa, infatti, che rappresentava la copertura di proprietà aliena, avevamo solo diritto di calpestio e di "alzius non tollendi", salvo che per la parte più stretta davanti alla detta cameretta ed al bagnetto (12 e 13) che copriva la legnaia a pianterreno.

E, a proposito di terrazze, la principale era quella su via Miciano. Ci si arrivava attraverso un ballatoio della scala principale che si svolgeva lungo il lato nord fino ad una porticina ed una breve scaletta. Mentre le altre due erano semplicemente impermeabilizzate, questa era pavimentata con mattonelle in graniglia e cemento, protetta con ringhiera di ferro verso il cortile e da balaustra a colonnine in muratura verso la strada.

Siccome sui muri nord e sud v'erano applicate delle lampade la terrazza serviva anche per le fresche serate d'estate o, con l'ausilio di un fonografo a corda, per i numerosi balletti che organizzavamo noi ragazzi.

La camera di Elena e Rosa (14) era più grande ancora di quella dei genitori. In essa troneggiava un bellissimo letto in ottone e bronzo a due piazze che, se ancora esistesse, costituirebbe motivo di attrazione per molti amatori.

Per arrivare al più vicino bagno occorreva, come è possibile notare dalla planimetria, passare attraverso le camere dei genitori o, nel peggiore dei casi, percorrere il pensile coperto, ma aperto.

Alle... necessità notturne si usava sopperire allora con gli appositi vasi nei comodini, rinviando "le grosse occupazioni" al mattino seguente. Nei casi disperati si bussava e, ottenuto il permesso, si passava. Questo, che oggi sembra incredibile, era allora assolutamente normale.


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Uguale sorte toccava alle cameriere che, in numero variabile da due a tre, erano sistemate nelle ultime camere (15 e 16). Con lo svantaggio che esse non avrebbero mai osato passare attraverso le nostre camere e quindi erano costrette a percorrere il pensile.

Anche tale fatto non deve scandalizzare: esse provenivano da famiglie numerose e povere che vivevano ammucchiate in un unico terraneo, il cui "ambiente di servizio" era costituito da una specie di garitta posta nel mezzo del cortile, comune ad altre consimili famiglie; al centro sul pavimento (!?!) v'era un foro che comunicava direttamente e senza alcuna protezione col sottostante pozzo nero. Per lavarsi (quando lo facevano o lo potevano) avevano un bacile e basta.

Trovarsi perciò in una casa confortevole, con un letto comodo dove si dormiva da soli, dove ci si lavava con acqua calda, il cibo era buono ed abbondante e (parlo per la nostra casa) si era rispettate e regolarmente pagate, costituiva un'autentica aspirazione per molte ragazze che non avevano altre risorse.

Non posso in proposito chiudere questa nota senza menzionare qualcuna che ha fatto parte della casa: dalla carissima Antonietta (NOTA) che, venuta in casa alla mia nascita, è passata finora attraverso cinque generazioni da mio nonno a mio padre (che la menzionano nelle loro memorie) a Domenico ed infine a Mariadelaide, figlia dello stesso, presso la quale vive e ne accudisce i cinque figli; a Maria "la grande" rimasta in casa una quindicina d'anni e andata via soltanto per sposarsi (e che ancora oggi non manca di confezionare per tutta la famiglia i gustosissimi "casatielli" pasquali); a Maria "la piccola" anch'essa andata via per sposarsi, in provincia di Milano, la quale a mezzo telefono s'interessa spessissimo della famiglia nella quale è vissuta per molti anni.

Salvo rarissime eccezioni, esse andavano via solo per sposarsi e mai a mani vuote: mia madre (e poi mia cognata) teneva moltissimo a preparare per loro un pò (ancora...) di corredo, in prevalenza materassi, lenzuola e coperte. Antonietta, in particolare ha potuto, con i risparmi accumulati, finanche venire in aiuto di mio nonno (di nascosto a mio padre) alle

NOTA: Si tratta di Antonietta Rinaldi, nota come Tettella; da altre memorie risulta entrata a servire nella famiglia Davide probabilmente nel gennaio 1923. Rimasta in casa Davide fin quando, sposatasi Mariadelaide Davide, passò presso di lei nella nuova famiglia da lei costituita col marito Antonio Basile; ivi deceduta il 23/2/1984. Il servire è in corsivo a segnalare quanto improprio sia questo verbo; piuttosto era una zia o nonna supplementare per tutti noi nipoti e nipotini che le volevano un gran bene. Quanto importante fosse per la nostra famiglia, ed in che considerazione fosse tenuta, lo si può ricavare dalle memorie di Pasquale Davide (mio bisnonno; accessibili tramite password). Per quello che potevo fare a suo ricordo, l'ho indicata come figlia adottiva di mio nonno Attilio Davide nella genealogia familiare.


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prese con lo scapestrato zio Ugo: oggi (Tettella, ndr) non manca di fare, di tanto in tanto, piccoli regali ai figli miei e di mio fratello e, in occasione dei loro matrimoni, non dimentica nessuno.

Se mi sono dilungato su quest'ultimo argomento, estraneo allo scopo della nota, è perché vorrei che si capisse anche qualcosa della "famiglia" oltre che della "casa"; qualcosa che traspare dalle memorie dei miei antenati ma non appare, forse per modestia forse per dimenticanza.

Mi accorgo però a questo punto di aver parlato più della vita che nella casa si svolgeva che della casa stessa.

E forse tale argomento non interessa più nessuno.

                                        Antonio Davide


Son contento, per una volta, di aver smentito mio padre Antonio, che immaginava qui sopra di scrivere senza interessare più nessuno; credo sarebbe stato felice di sapere d'essersi sbagliato.


                                                                                                                                         

                            Libro di Memorie di Francescopaolo Attilio Davide        Libro di Memorie di Antonio Davide


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